Giovani ingegneri di “Tor Vergata” vincono il premio Youth in Action, idee sostenibili under 30

Il progetto «Mac» è tra i vincitori di “Youth in Action for Sustainable Development Goals che il 6 giugno ha premiato le migliori idee progettuali in grado di favorire il raggiungimento degli SDGs (Sustainable Development Goals) in Italia sensibilizzando al tema dell’Agenda 2030.

Alessandro Biagetti, Marco Falasca, Volodymyr Iavarone Astakhov e Marta Speziale

Il concorso promosso da Fondazione Italiana Accenture, Fondazione Feltrinelli, Fondazione Eni Enrico Mattei, è stato realizzato con il supporto tra gli  altri,  di ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (nata a febbraio 2016 su iniziativa della Fondazione Unipolis e dell’Università di Roma “Tor Vergata”) e della RUS – Rete delle Università per lo Sviluppo sostenibile.

«Mac» non è computer ma un Modules aquaponics curtain-wall. Il progetto è stato realizzato da Alessandro Biagetti, Marco Falasca, Volodymyr Iavarone Astakhov e Marta Speziale, laureandi under 30 a “Tor Vergata” in Ingegneria e tecnica del costruire (corso di laurea coordinato dalla prof. Stefania Mornati), tutti con una grande passione e interesse per l’agricoltura, l’impegno sociale e l’architettura sostenibile.

Il modulo in questione sembra riesca a ricomprendere un po’ tutte  queste tre aree ma che cosa significa esattamente acquaponica e come funziona «Mac»?

«Per acquaponica si intende una tipologia di agricoltura sostenibile basata su una combinazione di acquacoltura e coltivazione idroponica, ovvero fuori suolo, senza alcun uso di additivi chimici. L’idea che è alla base del nostro progetto – spiega Alessandro Biagetti – è quella di applicare l’acquaponica agli edifici: su facciate e terrazzi vengono posti i moduli per la coltivazione che sono collegati a vasche di pesci commestibili (carpe, trote e gamberi rossi di acqua dolce) collocate al piano garage o sui balconi stessi. I pesci con il materiale di scarto da loro prodotto fertilizzano le piante (pomodori, rughetta, insalata, etc.) e queste filtrano e rimandano l’acqua depurata alle vasche con i pesci.

Insomma, un sistema che si autosostiene e allo stesso tempo sostenibile?

«Proprio così.  Il Modulo infatti non ha bisogno dell’aggiunta di altra acqua, arrivando a realizzare una riduzione di consumo idrico pari all’80%. Il progetto – racconta Marco Falasca –   è diviso in due parti: una dedicata agli edifici e all’efficienza energetica, sfruttando il concetto del “curtain wall” –  un sistema di tamponamento esterno che permette la realizzazione di facciate continue. Il progetto ha il fine rendere produttive superfici non coltivabili con metodi tradizionali e schermare l’edificio, proteggendo la struttura sottostante dagli agenti atmosferici; e l’altra sviluppata pensando alla riqualificazione degli spazi urbani e che prevede l’utilizzo della coltivazione acquaponica in edifici abbandonati o in piazzali dove sarebbe troppo costoso pensare di sostituire le piante al cemento. Da questa idea di rigenerazione urbana sta nascendo, con il supporto di Confcooperative, la startup “ReGeniusLoci” con la quale ci proponiamo di rigenerare spazi in disuso rendendoli produttivi e soprattutto green».

L’idea è stata scelta tra tutti i progetti under 30 per rappresentare l’Italia, per questo volerà a New York alla International Conference on Sustainable Development (ICSD) 2017, la più importante conferenza mondiale sui temi dello sviluppo sostenibile che si terrà alla Columbia University dal 18 al 20 settembre.  Il progetto, inoltre, è stato premiato con uno stage retribuito per uno dei realizzatori presso MM-Metropolitana Milanese, la società che gestisce le case popolari del Comune di Milano, per valutarne la fattibilità e applicare il prototipo in un progetto pilota.

Marco Falasca
Alessandro Biagetti

 

«L’utilizzo di un impianto di coltivazione acquaponica costituisce anche un’opportunità di inclusione sociale, non solo perché crea occupazione ma anche perché favorisce l’impiego di categorie di lavoratori svantaggiati dal momento che rende le operazioni di coltivazione molto meno faticose rispetto all’agricoltura tradizionale: non occorre infatti né zappare né rimanere piegati per ore a dissodare il terreno», dice  Volodymyr.

La sostenibilità per i quattro studenti di ingegneria travalica i confini della “tecnica del costruire” fino ad arrivare all’impegno sociale di Unimpegno onlus, l’associazione di volontariato creata all’Università di Roma  “Tor Vergata” nel 2016 insieme a studenti delle altre facoltà/macroaree (Medicina, Economia, Lettere, Scienze, Giurisprudenza) che con il progetto  “Unimpegno per Capricchia” vogliono restituire il senso di appartenenza alla frazione di Amatrice colpita dal terremoto del 24 agosto 2016.

Inoltre, insieme all’associazione di volontariato Ingegneria senza frontiere Roma, nata all’interno dell’Università Sapienza, Unimpegno collabora ad un progetto sui piani di emergenza volto a migliorare la conoscenza e la consapevolezza dei cittadini riguardo al tema della prevenzione e della gestione delle emergenze.

Alessandro, Marco, Marta e Volodymyr hanno, al momento, lo stesso sogno: lavorare come architetti/ingegneri umanitari per una solidarietà sociale, umana, civile e culturale e a loro si rivolge Il Rettore di “Tor Vergata”, prof. Giuseppe Novelli, che nel congratularsi per l’importante risultato, fa un grande in bocca al lupo per l’appuntamento di settembre, “certo che saprete esprimere al meglio il vostro talento, preparazione e la vostra creatività”.

 

Una fionda molecolare per il rilascio mirato di farmaci

La fionda molecolare, 20.000 volte più piccola di un capello umano, può essere attivata da uno specifico marker patologico: «progettare la fionda molecolare non è stato facile. Sono stati necessari molti esperimenti per fare in modo che la fionda rilasciasse il farmaco soltanto nel momento in cui veniva innescata dall’anticorpo», racconta Simona Ranallo, ricercatrice post-dottorato presso il gruppo diretto da Francesco Ricci, professore associato di Chimica – Università di Roma “Tor Vergata” e primo autore del lavoro di ricerca i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista “Nature Communications”.

Francesco Ricci, professore associato di Chimica presso l’Università di Roma “Tor Vergata”

La fionda molecolare ha le dimensioni di pochi nanometri ed è composta da un filamento di DNA sintetico che può caricare un farmaco e agire proprio come l’elastico di una fionda. Le estremità di questo DNA contengono due porzioni di ancoraggio che si possono legare in maniera specifica ad un anticorpo: una proteina a forma di Y espressa nel nostro corpo in risposta a diversi agenti patogeni come batteri e virus. «Quando le porzioni di ancoraggio della fionda molecolare riconoscono e si legano ai bracci dell’anticorpo bersaglio – continua Simona Ranallo -, il DNA subisce un allungamento e questo porta al rilascio del farmaco attraverso un meccanismo che ricorda quello di una vera e propria fionda che “ spara” il suo colpo».

«Una caratteristica importante di questa particolare fionda – spiega Ricci – è costituita dal fatto che può essere attivata solo dall’anticorpo specifico che riconosce i punti di ancoraggio del DNA “elastico”.  Cambiando i  punti di ancoraggio si può dunque programmare la fionda in modo da rilasciare un farmaco con diversi anticorpi. Poiché diverse patologie sono caratterizzate da specifici anticorpi, la nostra fionda molecolare potrebbe diventare un’arma molto precisa nelle mani dei medici».

Un altro aspetto interessante è la sua elevata versatilità. «Fino ad ora – afferma Alexis Vallée-Bélisle, professore presso il Dipartimento di Chimica presso l’Università di Montreal – abbiamo dimostrato il suo principio di funzionamento impiegando acidi nucleici come farmaci modello ma grazie alla elevata programmabilità del DNA si potrà progettare la fionda per “sparare” una vasta gamma di agenti terapeutici».

Il gruppo di ricercatori è pronto per adattare questa nuova macchina molecolare per il rilascio di farmaci clinicamente rilevanti e per dimostrare la sua efficienza clinica. «Prevediamo che simili macchine molecolari possano essere utilizzate in un prossimo futuro per rilasciare farmaci in punti specifici del corpo e migliorare l’efficienza dei farmaci, diminuendone allo stesso tempo gli effetti tossici», conclude il prof. Francesco Ricci.

Gli enigmatici buchi neri sono governati da fenomeni magnetici

 

I venti e i getti prodotti da un buco nero sono governati da fenomeni magnetici, indipendentemente dalla massa dell’oggetto compatto: questa la scoperta di un team internazionale di ricercatori, studiando un sistema binario che ospita un buco nero di massa stellare.  Vediamo di capirne di più con Francesco Tombesi, co-autore dello studio e ricercatore all’Università di Roma “Tor Vergata”, che nel 2015, sempre con una ricerca sui buchi neri,  si era conquistato la copertina di Nature.

Che cosa comporta aver scoperto  che i venti sono governati da fenomeni magnetici, indipendentemente dalla massa del buco nero centrale ?

I buchi neri sono tra gli oggetti astrofisici più enigmatici dell’Universo e si presentano con diverse masse, di massa stellare (alcune volte quella del Sole) in sistemi binari dove il buco nero sta divorando la sua stella compagna, e super-massicci (fino a miliardi di volte la massa del Sole) al centro di tutte le galassie. Pur essendo di masse cosi’ diverse e avendo avuto origine in modi diversi, osservazioni con satelliti nei raggi X mostrano che questi buchi neri non solo stanno divorando materiale, ma che in qualche modo producono dei potentissimi “venti” e “getti” di plasma. Il nostro lavoro dimostra che l’origine di questi venti è dovuta a fenomeni magnetici che avvengono sul disco di materiale che sta cadendo verso il buco nero. Inoltre, siamo riusciti a dimostrare che questo fenomeno è universale e vale per tutti i buchi neri astrofisici, indipendentemente dalla loro massa.

Perchè è così importante per l’astrofisica moderna comprendere in dettaglio la fisica di ciò che accade nei dintorni di un buco nero?

L’accrescimento e l’eiezione di materiale intorno ai buchi neri è uno degli argomenti di punta della fisica moderna in quanto si possono raggiungere regimi di gravità, temperatura e densità estremi, che non si potranno mai raggiungere in laboratorio. Questo ci consente di investigare la validita’ della relatività generale in condizioni limite ed inoltre di studiare la fisica dei plasmi altamente ionizzati. Dal punto di vista astrofisico, lo studio dell’accrescimento su buchi neri ci puo’ informare sul modo in cui essi crescono nell’Universo e sugli effetti che possono avere sul mezzo interstellare e sull’evoluzione delle strutture cosmiche. Infatti, recentemente si parla molto di “feedback” tra buchi neri e galassie, indicando il fatto che i fenomeni legati ai buchi neri supermassicci al centro delle galassie ne possono addirittura influenzare la loro evoluzione. Senza i buchi neri al loro centro, le galassie non apparirebbero come le vediamo oggi.

Il Sole, osservato speciale dal Polo Sud grazie a MOTH II e ai ricercatori di “Tor Vergata”

Francesco Berrilli, docente di Fisica Solare e Climatologia Spaziale  all’Università di Roma “Tor Vergata”,  di ritorno  dalla missione presso la Stazione Polare Amundsen-Scott,  al Polo Sud, racconta il  suo viaggio scientifico, intrapreso insieme a Stefano Scardigli, Post Doc per il Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma “Tor Vergata” e il progetto South Pole Solar Observatory, il telescopio dedicato all’osservazione del Sole. Il team antartico è composto da ricercatori dell’Università delle Hawaii, Georgia State University, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, JPL e European Space Agency.

Compito dei ricercatori è quello di installare e rendere operativo il telescopio solare per la ricerca astrofisica nel campo delle onde di gravità nell’atmosfera solare e della meteorologia spaziale (Space Weather). Il progetto, finanziato dal National Science Foundation con un supporto del PRIN-MIUR 2012, è coordinato dal prof. Stuart Jefferies della Georgia State University.

Ad estreme latitudini, durante le estati polari, il sole rimane al di sopra dell’orizzonte per interi mesi. Un Osservatorio al Polo Sud consente dunque di seguire la nostra stella per settimane o giorni, se il tempo meteorologico lo consente. Osservando il sole con il telescopio MOTH II si possono studiare strati diversi dell’atmosfera e processi fisici a cui non si ha accesso dallo spazio, per mancanza di strumenti simili, o dai normali osservatori a terra, perché subiscono il ciclo giorno-notte e non consentono una corretta analisi matematica del segnale osservato.

Nel nostro caso la campagna di osservazione si proponeva di perseguire tre obiettivi scientifici specifici:
1. determinare le proprietà delle onde di gravità presenti nell’atmosfera solare ed il ruolo che esse svolgono nella dinamica atmosferica ed energetica del riscaldamento coronale;
2. determinare con precisione la variazione latitudinale e longitudinale ,in funzione dell’altezza nell’atmosfera, dei grandi flussi di plasma solare ed il loro impatto sulle teorie di dinamo solare (la grande macchina magnetica che produce l’attività solare ed ha un ruolo centrale nella variabilità solare e nei fenomeni di Space Weather);
3. testare gli algoritmi di previsione degli eventi solari esplosivi, come i flare e le emissioni di massa coronale, che si stanno sviluppando presso il nostro gruppo nell’ambito di progetti europei di previsione dello stato fisico dello spazio circumterrestre (Earth’s Space Weather).

Francesco Berrilli *

*Professore di Fisica Solare e Climatologia Spaziale  all’Università di Roma “Tor Vergata”

Ansa.it Al via la costruzione di un telescopio solare in Antartide

Researchitaly – Miur Antartide: ricercatori di Tor Vergata al lavoro per installare il telescopio solare MOTH II

Media Inaf   Un telescopio solare al Polo Sud

George State University Following the Sun to the End of the Earth

 

 

 

La simulazione marziana alle Hawaii: missione compiuta

 

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Cyprien Verseux, dottorandoUniversità di Roma “Tor Vergata”

a cura della Redazione

Un anno isolati alle Hawaii per simulare una spedizione su Marte, con la missione della Nasa ‘Hi-Seas’.  É terminata il 28 agosto la missione dei sei ricercatori  che hanno abbandonato  la loro ‘casa spaziale’ sulle pendici del vulcano Mauna Loa, per tornare nei rispettivi Paesi d’origine. Tra questi il giovane astrobiologo francese Cyprien Verseux, dottorando all’Università di Roma “Tor Vergata”,  pronto a tornare a lavorare  presso l’Ateneo romano, supervisionato da Daniela Billi (Dipartimento di Biologia) e Lynn J. Rothschild (NASA Ames).

Verseux ha conseguito il Master in Biologia Sintetica presso l’Institute of Systems and Synthetic Biology e in Ingegneria Biotecnologica presso l’Institut Sup’Biotech de Paris e ha partecipatoto al programma iGEM presso la NASA.

Poche ore dopo  aver lasciato il  “terrestre”  Pianeta Rosso, Verseux ha  affermato  che  “nel prossimo futuro una missione spaziale su Marte è realistica e che le difficoltà tecnologiche e umane sono superabili”.  In questo anno, Verseux è stato impegnato a studiare l’impiego dei batteri per convertire le poche risorse marziane in sostanze nutritive per le piante necessarie alla sopravvivenza dell’uomo. ‘Questa ricerca fa parte di un progetto di ricerca denominato CyBLiSS (Cyanobacterium-Based Life-Support System), un progetto che sviluppiamo nei laboratori sotto la supervisione della professoressa Daniela Billi dell’Università di Roma “Tor Vergata” e la dottoressa Lynn Rothschild della NASA.

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Quando il giovane astrobiologo rientrerà nel laboratorio di Astrobiologia e Biologia Molecolare di Cianobatteri Estremofili all’Università di Roma “Tor Vergata” contribuirà all’analisi di cianobatteri estremofili esposti per 16 mesi all’ambiente spaziale e marziano simulato al di fuori della Stazione Spaziale Internazionale nell’ambito degli esperimenti BOSS_Cyano e BIOMEX_cyano finanziati dall’Agenzia Spaziale italiana, due esperimenti che fanno parte della missione spaziale Expose-R2 coordinata dal DLR di Colonia (Petra Rettberg) e dal DRL di Berlino (Jean-Pierre de Vera).

«Tali analisi  – spiega la prof.ssa Daniela Billi – hanno lo scopo di verificare la capacità di cianobatteri estremofili di riparare i danni accumulati durante l’esposizione alle condizioni di vuoto spaziale, escursioni termiche, elevate dosi di radiazioni ultraviolette e ionizzanti presenti in bassa orbita terrestre, al difuori della Stazione Spaziale Internazionale. I risultati contribuiranno alla nostra conoscenza dei limiti della vita ma anche alla sua ricerca altrove valutando gli effetti dell’ambiente marziano simulato in bassa orbita terrestre sulle macromolecole biologiche».

Inoltre, lo studio degli effetti dell’ambiente spaziale e marziano simulato sulla tenacia di questi estremofili contribuisce allo sviluppo di tecnologie a supporto dell’esplorazione umana dello spazio basate sull’impiego di estremofili capaci di fotosintesi ossigenica ma anche sul lor impiego per la produzione di sostanze d’interesse con approcci di biologia sintetica. A questo scopo Cyprien Verseux continuerà alcune sperimentazioni intraprese durante la simulazione marziana alle Hawaii nel contesto del progetto CyBLiSS (Cyanobacterium-Based Life-Support System), basato sull’impiego di cianobatteri estremofili per convertire le poche risorse marziane in sostanze nutritive per piante in sistemi biorigenerativi a supporto dell’esplorazione umana dello spazio.

 

Materiali nanoporosi: i piccolissimi “vuoti” ne aumentano la resistenza

di Pamela Pergolini 

nanoporosiÉ stato pubblicato sulla rivista Mechanics of Materials di luglio 2016 lo studio “A computational insight into void-size effects on strength properties of nanoporous materials”. Lo studio riguarda il comportamento dei materiali nanoporosi ed è stato condotto dal gruppo di ricerca del settore di “Scienza delle Costruzioni” dell’Università di Roma “Tor Vergata” in collaborazione con ricercatori francesi dell’Università Pierre e Marie Curie (UPMC) e dell’Ecole Nationale des Ponts et Chaussées (ENPC).

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Stella Brach, dottoranda e laurea in Ingegneria Meccanica a “Tor Vergata”

Autori della ricerca sono Stella Brach, dottoranda e una laurea in Ingegneria Meccanica a “Tor Vergata”,  il prof. Djimédo Kondo del Laboratorio Jean le Rond d’Alembert dell’UPMC,  il prof. Luc Dormieux del Laboratorio Navier

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Luc Dormieux del Laboratorio Navier dell’ENPC di Parigi

dell’ENPC di Parigi, e il prof. Giuseppe Vairo (Scienza delle Costruzioni) del Dipartimento di Ingegneria Civile e Informatica (DICII) di “Tor Vergata”.  Il prof. Giuseppe Vairo è il responsabile scientifico, per la parte italiana, del progetto.

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Djimédo Kondo del Laboratorio Jean le Rond d’Alembert dell’UPMC

Lo studio è stato sviluppato nel contesto di una oramai ventennale cooperazione (per ricerca e formazione) tra l’Ateneo di “Tor Vergata” e l’ENPC, e di un programma di collaborazione avviato nel 2013 tra “Tor Vergata” e l’UPMC. Nell’ambito di quest’ultimo, la dott.sa Brach sta svolgendo attività di ricerca in cotutela per il conseguimento del titolo italiano di Dottore di Ricerca in “Ingegneria Civile” e il titolo francese di Dottore di Ricerca in “Science de l’Ingénieur”.

Prof. Giuseppe Vairo perché i materiali nanoporosi potrebbero essere importanti nella progettazione non tradizionale?

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Giuseppe Vairo, Scienza delle Costruzioni, Dip. Ingegneria Civile e Informatica (DICII) a “Tor Vergata”

Il lavoro appena pubblicato mette in luce, attraverso tecniche di simulazione numerica a scala molecolare, l’influenza positiva indotta da nanovuoti sulle proprietà di resistenza del materiale. Questo effetto, se opportunamente controllato, può essere utilizzato per progettare materiali con specifiche proprietà a seconda dell’applicazione strutturale in cui si vuole impiegarli. Insomma, i materiali nanoporosi possono riguardarsi come materiali potenzialmente progettabili per progettare. I risultati che abbiamo ottenuto confermano il ruolo attivo dei nanovuoti e la possibilità di controllare questi “effetti di taglia”. A partire da queste indicazioni quantitative, e nel contesto della cooperazione italo-francese, stiamo inoltre mettendo a punto nuovi modelli teorici di previsione del comportamento limite di tali materiali.

 

In quali campi dell’Ingegneria possono essere applicati?

I nanoporosi sono materiali caratterizzati da una strutttura porosa con pori la cui dimensione caratteristica è dell’ordine del nanometro (pari a un miliardesimo di metro).  Essi esibiscono proprietà fisiche affascinanti, in termini di risposta meccanica, chimica ed elettromagnetica. In particolare, in ragione della presenza di nanocavità, questa classe di materiali con nanostruttura apre potenzialmente ad applicazioni avanzate e innovative in diversi campi dell’Ingegneria (e.g., civile, ambientale, geofisica, petrolchimica, biomeccanica) ad alto contenuto tecnologico e con elevate potenzialità in termini di impatto socio-economico. Prime applicazioni di questa tipologia di materiali cominciano a svilupparsi per concepire device multifunzionali in applicazioni aerospoaziali, dell’industria automobilistica, per l’accumulo energetico, per la sensoristica. Degne di nota sono le applicazioni nell’ambito dell’Ingegneria Medica. In particolare, i nanoporosi ben si prestano alla realizzazione di dispositivi intelligenti di ultima generazione in grado di svolgere funzioni di biosensoristica, di rilascio locale di farmaco, di catalisi, e di filtrazione.

Ma qual è il segreto? Perché vuoti a scala nano aumentano la resistenza del materiale?

Il segreto risiede nella natura “nano” delle cavità. Sin dai tempi dei maestri costruttori del Medioevo, gli spazi vuoti all’interno di una struttura continua erano percepiti come il punto debole della struttura. Chi s’imbatte in una cattedrale gotica non può non riconoscere strette aperture in muri maestosi, e nessuno – fino a tempi ingegneristicamente più illuminati – ha avuto l’ardire di pensare al vuoto come elemento attivo e controllabile. Di fatto, materiali con elevati rapporti vuoto/pieno (schiume metalliche, materiali porosi) hanno consentito di vincere sfide ardue come il volo, visto il loro ridotto peso specifico a fronte di soddisfacenti proprietà di resistenza, rappresentando primi esempi di materiali progettati per assolvere a specifici requisiti. Ma si può fare di più.

Con lo stesso ardire logico, se immaginassimo una pausa musicale più lunga di una battuta all’interno di un’opera classica, l’effetto  ci risulterebbe strano e forse da attribuire a un errore del musicista. Di contro, se ascoltassimo un pezzo Jazz, ogni pausa sarebbe perfettamente giustificata dall’alternanza di “pieni” e “vuoti” di questo genere, a chiara evidenza che note piene e pause possono convivere in una perfetta armonia.

Nel caso di nanocavità, le interazioni elettrochimiche a scala atomica, fra atomi affacciati sul bordo di ciascuna di queste cavità, possono conferire un incremento di resistenza e di proprietà meccaniche.  Gli atomi che costituiscono il materiale, interagiscono tra loro con forze elettrochimiche che potremmo banalizzare pensando gli atomi come una schiera di persone che si tengono per mano. Se in una regione del materiale allontanassimo gli atomi tra loro, creando una cavità (poro) di dimensioni grandi (tipicamente quello che accade in schiume metalliche o materiali porosi classici, in cui le dimensioni del poro sono dell’ordine del millimetro), gli atomi affacciati sul poro non avrebbero più la possibilità di stringere le mani degli atomi che hanno di fronte. Se però il poro è sufficientemente piccolo, gli atomi affacciati sul poro continueranno a tenersi (idealmente) tra loro per mano, ma con il risultato che essi dovranno “sforzarsi” per allungare le braccia. Questo, in modo molto banale, porta a una perturbazione delle interazioni a livello locale che, se opportunamente controllata, può indurre un miglioramento delle proprietà meccaniche, oltre che degli effetti di compatibilità elettro-chimica con possibili molecole/atomi interposti fra le “braccia tese” (favorendo quindi processi di filtrazione/catalisi, associati ad un’azione di setaccio molecolare).

Quali metodologie progettuali vengono utilizzate per l’impiego dei materiali nanoporosi?

La progettazione di strutture e dispositivi basati sull’uso di materiali nanoporosi non può avvalersi delle metodologie progettuali tradizionali, dovendo portare in conto effetti non trascurabili, propri di una scala inferiore a quella osservabile. D’altro canto progettare una struttura macroscopica (l’ala di un velivolo, la pala di una turbina, o un qualunque componente meccanico) descrivendo in modo diretto gli atomi e le molecole che la compongono sarebbe ingegneristicamente impraticabile e inefficace. È allora necessario un approccio multiscala che consenta di includere in approcci progettuali sintetici, e in maniera indiretta, l’influenza dei fenomeni dominanti alla nanoscala sul comportamento del materiale alle scale d’interesse ingegneristico. Questo è il nostro piano di ricerca, che prevede lo sviluppo di approcci teorici e numerici, con l’intento di fornire metodi di progettazione del materiale e approcci progettuali specifici per strutture e dispositivi realizzati con questi materiali avanzati.

Le spugne magiche di “Tor Vergata”: dalla purificazione delle acque alla connessione dei tessuti nervosi

di Pamela Pergolini

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Credits: SISSA / UniTS

Nanomateriali applicati alle neursoscienze. Una spugna di nanotubi di carbonio, compatibile con il tessuto nervoso, è capace di collegare due “fettine” di midollo spinale. L’importante risultato, ottenuto dal gruppo di Maurizio Prato dell’Università di Trieste, in collaborazione con Maurizio De Crescenzi dell’Università di Roma “Tor Vergata” e Laura Ballerini della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Science Advances, numero di luglio, con il titolo “3D meshes of carbon nanotubes guide functional reconnection of segregated spinal explants”.

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Maurizio De Crescenzi, ordinario di Struttura della materia, Roma “Tor Vergata”

Nel 2013 il gruppo di ricerca di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di Fisica, coordinato da Maurizio De Crescenzi, professore di Struttura della materia, e coadiuvato dalla ricercatrice Manuela Scarselli, aveva sintetizzato per la prima volta spugne ultra leggere a struttura tridimensionale costituite da nanotubi di carbonio. Tale materiale è stato utilizzato per studi sulla purificazione della acque (in quanto le spugne erano capaci di assorbire una quantità di olio pari a 150 volte il loro stesso peso iniziale) e come sensori di pressione meccanica, sfruttando le eccezionali proprietà meccaniche e di trasporto elettrico dei nanotubi. Successivamente il gruppo di ricerca di “Tor Vergata” si è messo in contatto con il prof. Maurizio Prato proponendogli di provare ad utilizzare le “magiche” nano spugne nei suoi studi sulla riconnessione di segmenti di midollo spinale basati sull’utilizzo di film a due dimensioni di nanotubi di carbonio. Questo contatto scientifico si è dimostrato di grande successo e ha richiesto molta sperimentazione. «Si tratta di uno studio complesso durato diversi anni che ha visto la collaborazione di gruppi di ricerca provenienti da campi lontani e che grazie alle loro competenze multidisciplinari ha portato a questo importante risultato – dichiara Maurizio Decrescenzi -. Il nuovo nanomateriale è stato riscontrato poter riconnettere dei segnali neuronali altrimenti spezzati e non più comunicanti tra loro. I nanotubi di carbonio fungono infatti da vera e propria autostrada metallica alla comunicazione elettrica tra i neuroni».

Manuela Scarselli, ricercatrice, Dip. di Fisica,   Università “Tor Vergata”

«Dal punto di vista macroscopico il materiale appare come una matassa di colore nero molto leggera capace di galleggiare sull’acqua (essendo molto idrofobica), e di assorbire oli e inquinanti dell’acqua (metalli pesanti, solventi organici) – spiega Manuela Scarselli, che si è occupata della sintesi e preparazione di campioni di spugne adatti alla ricerca in oggetto, – mentre la struttura interna nanoscopica può essere pensata come una matassa tridimensionale formata da milioni di nanotubi intrecciati dove circa il 90% del suo volume è costituito dagli spazi vuoti tra i nanotubi stessi. Il fatto che questa struttura si autosostiene avendo una forma propria e mantenga  inalterate le proprietà uniche dei nanotubi di cui è costituita, ha reso possibile il suo utilizzo sia come elemento di sostegno per la crescita di fibre nervose, sia come trasduttore di segnale elettrico tra porzioni staccate di tessuto”.

Nella ricerca attuale è stata indagata la reazione del materiale con i tessuti nervosi in vitro, e visti i risultati estremamente positivi, il  gruppo di ricerca è passato a testare se questo materiale veniva accettato da un organismo vivente senza conseguenze negative.

«Questi materiali – spiega Laura Ballarini della Sissa, coordinatrice dello studio appena pubblicato – potrebbero essere molto utili per rivestire gli elettrodi che si usano nel trattamento dei disordini motori, come ad esempio il tremore del Parkinson, perché ben accettati dai tessuti».

Al prof. Maurizio De Crescenzi e alla dott.ssa Manuela Scarselli vanno le congratulazioni del rettore, prof. Giuseppe Novelli, “per il lavoro svolto e per l’intuito, la creatività e l’intersettorialità della ricerca, elementi fondamentali per stimolare l’innovazione e una ricerca universitaria interdisciplinare”.

Ricordiamo che l’Università di Roma “Tor Vergata” nel 2014 ha conferito a Maurizio Prato, Dipartimento Scienze Chimiche e Farmaceutiche dell’ Università di Trieste, la Laurea Honoris Causa in “Scienza e Tecnologia dei Materiali”.

 

 

Movimenti incontrollati? Colpa dei neuroni che non tornano alla posizione zero

 di Pamela Pergolini

Ricercatori della Fondazione Santa Lucia Irccs e dell’Università di Perugia, coordinati dal professsore Paolo Calabresi insieme al gruppo di ricerca del professor Antonio Pisani, dell’Università di Roma “Tor Vergata”, e ai colleghi inglesi e spagnoli dello University College di Londra e dell’Istituto Carlos III di Madrid, sono riusciti a dimostrare che i movimenti incontrollati di cui soffrono pazienti affetti da patologie così diverse, hanno tutti in realtà un problema in comune: l’incapacità dei neuroni di tornare a riposo dopo essere stati stimolatidonazione-sangue per apprendere un movimento.

I neuroni coinvolti sono per la precisione quelli dello striato, una regione interna del nostro cervello deputata a organizzare il movimento. Come gli stimoli elettrici che li sollecitano producono effetti di due tipi: uno chiamato LTP (long term potentiation) e l’altro LTD (long term depression). Immaginiamo per un attimo di osservare questi impulsi elettrici con un tester: quando il neurone è a riposo è come se la lancetta  fosse sullo zero. Se il neurone riceve una sollecitazione LTP la lancetta si sposta verso il positivo. Se invece riceve un impulso LTD, di segno opposto, il neurone si muove verso il negativo.

Attraverso questi impulsi di opposte direzioni noi impariamo da bambini, per progressivi aggiustamenti, a muovere mani e braccia, a camminare, ad andare in bicicletta. Poi, per tutta la vita, grazie ai medesimi impulsi, i neuroni del nostro cervello guidano i movimenti, li adattano all’ambiente, ne correggono quando necessario la traiettoria e in generale li tengono sotto controllo come movimenti volontari. “Questo meccanismo – spiega la dottoressa Veronica Ghiglieri, ricercatrice presso il Laboratorio di Neurofisiologia della Fondazione Santa Lucia – funziona tuttavia solo  se i nostri neuroni conservano la capacità di tornare alla posizione “zero” dopo ogni LTP o di poter esprimere un comportamento del tipo LTD”.

Ed è proprio questa incapacità di “downscaling”  da parte dei neuroni  –  ossia di ritornare a un livello di controllo e assumere la posizione “zero” dopo ogni stimolazione – che lo studio internazionale ha dimostrato essere comune ai pazienti affetti da malattia di Parkinson, distonia e malattia di Huntington.

Tale alterazione si riflette in un eccesso di movimenti involontari e incontrollati, tipici della distonia, un comune disturbo del movimento su cui il gruppo di ricerca dell’Università di Roma “Tor Vergata” lavora da circa un decennio.

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Antonio Pisani, neurologo, Laboratori Neuroscienze all’ Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

«L’osservazione interessante, che ci ha portato a condividere tali esperienze con diversi laboratori di ricerca e soprattutto con il laboratorio del prof. Calabresi all’Università di Perugia, sta appunto nel meccanismo neuronale sinaptico che sembra accomunare disturbi ipercinetici del movimento apparentemente diversi tra loro sia come origine che come manifestazioni cliniche, come ad esempio le discinesie (alterazioni del movimento) nella malattia di Parkinson e la Corea di Huntington» –  dichiara il prof. Antonio Pisani, Neurologo, Dipartimento di Medicina dei Sistemi all’Università Roma “Tor Vergata” . L’aspetto più caratteristico dello studio è proprio il fatto che una causa comune dell’ipercinesia sia stata riconosciuta in pazienti con patologie di origine tanto diversa, come appunto una malattia neurodegenerativa con cause multifattoriali, quale è la malattia di Parkinson, accanto a patologie di origine genetica come distonia e malattia di Huntington.

«In effetti, le nostre ricerche sono partite anni fa proprio dalla malattia di Parkinson studiando gli effetti collaterali della terapia più utilizzata per questo disturbo: la levodopa – spiega Paolo Calabresi, ordinario di Neurologia e Direttore della Sezione di Neurologia Clinica presso l’Università degli Studi di Perugia –. Il tratto comune a queste ipercinesie è che il meccanismo interessa i recettori dopaminergici. Questo studio tuttavia dimostra che all’origine dei movimenti incontrollati c’è una disfunzione che si presenta identica anche in pazienti con patologie che non sono causate dalla mancanza di dopamina».

L’obiettivo futuro della ricerca sarà quello di trovare modalità efficaci per restituire ai neuroni la capacità di “downscaling. «Senza questa capacità – osserva Barbara Picconi, ricercatrice del Laboratorio di Neurofisiologia della Fondazione Santa Lucia – è come se i neuroni, chiamati a compiere un nuovo movimento, portassero con sé gli stimoli ricevuti per movimenti precedenti, creando una confusione nel messaggio di controllo. Immaginiamoci in queste condizioni un rumore di sottofondo che si traduce in movimenti incontrollati e impedisce quelli corretti».

Come intervenire allora per trovare una cura?  «La nostra conoscenza del cervello fisiologico è oggi ancora incompleta ma è  possibile cercare soluzioni terapeutiche sviluppando farmaci oppure adeguati metodi di neurostimolazione profonda o stimolazione magnetica transcranica che restituiscano una corretta plasticità ai neuroni. Ogni nuova conoscenza di base è già per sé importante», conclude Barbara Picconi.

Lo studio Hyperkinetic disorders and loss of synaptic downscaling è pubblicato da Nature Neuroscience (Vol. 19, 7, online 28 June 2016).

Furto d’identità in Rete? Ora si può prevenire con una app

280_0_4702074_670306Cybersecurity: il furto d’identità digitale si combatte con “MP-Shield”, una app realizzata nell’ambito del progetto Sypcit, cofinanziato dalla Commissione europea, DG Affari Interni, nell’ambito del Programma Europeo per laPrevenzione e Lotta contro la criminalità,  di cui Adiconsum è coordinatore per l’Italia in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata” – Dipartimento di Ingegneria Civile e Ingegneria Informatica, le imprese ExpertSystem e Kaspersky Lab Italia, l’Associazione Consumatori rumena InfoCons e il prezioso supporto della Guardia di Finanza – Nucleo Speciale Frodi Tecnologiche.

L’applicazione è stata progettata per essere di ausilio ai consumatori ed è disponibile gratuitamente su smartphone con sistema Android. Essa permette di navigare in internet avendo più consapevolezzadei possibili rischi. Inoltre, rende la navigazione più sicura, perché dotata di strumenti automatizzati di sorveglianza dello scambio di dati.

Il progetto Sypcit intende promuovere nuovi modelli e strumenti di lotta e di prevenzione al furto di identità in rete. Cuore del progetto sono due nuovi strumenti: oltre all’app  “MP-Shield” è previsto l’utilizzo di una piattaforma,sypcit messa a disposizione delle Forze dell’Ordine. Alla base del suo funzionamento vi è un sistema di analisi semantica delle fonti web, in grado di categorizzarle e classificarle secondo una serie di criteri atti a identificarne in modo automatizzato il contenuto e la potenziale pericolosità. Questo permetterà agli investigatori di usufruire di materiale già strutturato e pre-analizzato su cui lavorare in modo mirato e più efficace.

Il consumatore riceverà un avviso nel caso si apra una mail di phishing o si immettano in rete dati personali su siti riconosciuti come non sicuri o classificati come potenzialmente tali dalla piattaforma Sypcit.

 

Museo Egizio, indagini scientifiche non invasive per studiare le tecniche pittoriche utilizzate nell’antico Egitto

a cura della Redazione

PHOTO 3Dal Museo Egizio di Torino i primi risultati ottenuti da indagini – svolte con innovative tecniche scientifiche – su manufatti metallici, alabastri, terrecotte e cofanetti in legno dipinti presenti nel corredo funebre della collezione della tomba di Kha, forniscono nuove indicazioni sulle pratiche pittoriche utilizzate nell’antico Egitto, sulla presenza di diverse tipologie di manifattura artistica degli oggetti e sul loro stato di conservazione.

Parte delle analisi – svolte nell’ambito di un progetto multidisciplinare coordinato da ricercatori dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” in collaborazione con studiosi e ricercatori del CNR, del Museo Egizio, del Museo Storico della Fisica e Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi, della Soprintendenza Archeologia del Piemonte e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca- è stata effettuata utilizzando l’analisi non invasiva della fluorescenza a raggi X per scansioni macro (MA-XRF) in collaborazione CNR-IBAM e INFN-LNS. É stato possibile ottenere preziose informazioni sulla composizione degli elementi costituenti le superfici dei manufatti del corredo funebre della tomba di Kha, in particolare degli alabastri, vasi metallici e terrecotte e sulla distribuzione dei pigmenti che compongono la superficie pittorica dei cofanetti. Questi risultati forniscono preziose informazioni agli studiosi (archeologi, conservatori, curatori museali, etc.) per quanto riguarda la composizione dei materiali, le pratiche pittoriche e lo stato di conservazione dei reperti.

Lo studio condotto presso il Museo Egizio di Torino è parte di un più ampio progetto che ha l’obiettivo di caratterizzare i manufatti appartenenti alla tomba di Kha, capo dei lavori presso il villaggio degli operai di Deir el-Medina, impegnati nella realizzazione delle tombe dei faraoni durante la XVIII dinastia (1428-1351 a.C.). “L’IBAM continua in questo modo l’avventura scientifica con il Museo Egizio iniziata dal giorno di apertura del Museo” – sostiene Daniele Malfitana, direttore dell’IBAM. “Quest’anno – sottolineano Christian Greco, direttore, ed Enrico Ferraris, ricercatore del Museo Egizio – celebriamo i 110 anni dalla scoperta della tomba intatta di Kha avviando per la prima volta un progetto di studio interdisciplinare sull’intero corredo funerario. Le tecnologie d’avanguardia impiegate in questa prima fase di studio sono davvero promettenti e rivelano informazioni sui materiali dei reperti che non sono rilevabili ad occhio nudo, insomma si tratta di una sorta di ‘archeologia dell’invisibile’. Questa importante collaborazione tra issituzioni tra istituzioni scientifiche è uno straordinario esempio di network di ricerca; grazie ad essa potremo comprendere meglio come sono fatti gli oggetti del corredo di Kha e la storia della loro realizzazione. In questo modo non solo potremo meglio prenderci cura di questo importantissimo corredo ma, come centro di ricerca, il Museo Egizio continuerà a condividere nuova conoscenza a beneficio della comunità scientifica e dei nostri visitatori”. “Il progetto – afferma Matilde Borla della Soprintendenza Archeologia del Piemonte – è molto importante anche ai fini della conservazione attiva e passiva dei manufatti della tomba di Kha e Merit. Le specifiche ottenute relativamente alla composizione degli elementi che costituiscono le superfici dei manufatti sono fondamentali per appurare lo stato di conservazione dei reperti e per programmare eventuali interventi di restauro”.

La cosa bella di queste ricerche è l’interdisciplinarità – sostiene Luisa Cifarelli, presidente del Museo Storico della Fisica e Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi – che il Centro Fermi persegue con convinzione e che caratterizza la sua missione di ente di ricerca”. “Per raggiungere questi risultati- dichiara Carla Andreani, professore in Fisica Applicata all’Università di Roma Tor Vergata e direttore del Centro NAST – un fattore essenziale è la capacità di collaborazione sinergica  che gli esperti umanisti-archologici e ricercatori delle discipline chimico fisiche sono stati in grado di esprimere nella fase di progettazione e di realizzazione di questo progetto”.

photo 2Nei prossimi mesi – dichiara Giulia Festa, ricercatore all’Università di Roma “Tor Vergata” e ricercatore associato al Museo Storico della Fisica e Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi –  sono in programma altre indagini su tipologie di materiali presenti nel corredo funebre questa volta utilizzando fasci di neutroni presso il Rutherford Appleton Laboratory nell’Oxfordshire (UK)”.

 “Il passo successivo – afferma il prof. Giuseppe Gorini, professore di Fisica della Materia all’università di Milano-Bicocca, e coordinatore del progetto progetto PANAREA II del CNR – sarà quello di completare l’analisi elementale dei reperti della Tomba di Kha, utilizzando le diffrazione e l’imaging di neutroni (sulle linee di fascio ENGIN-X e IMAT presso la sorgente ISIS). L’Italia è all’avanguardia in queste analisi che sono ora applicate ai Beni Culturali dopo un’esperienza più che ventennale nella ricerca di base, resa possibile dagli accordi di ricerca stipulati dal CNR con il STFC inglese per l’utilizzo della sorgente di neutroni ISIS, a partire dal 1985, per l’utilizzo delle sorgenti di neutroni”.

“Light probes to unveil painting practices used in ancient Egypt” – Centro interdipartimentale Nanoscienze & Nanotecnologie & Strumentazione (NAST)